Arrivato al Chelsea per sostituire Carlo Ancelotti dopo una stagione semi-anonima conclusasi con un secondo posto in campionato e il record negativo di 71 punti (record che si riferisce al periodo di gestione Abramovich, dal 2003 ad oggi), Villas-Boas è stato accolto dalla stampa e dai tifosi come il naturale erede di Mourinho. Portoghese anche lui e suo assistente per sette anni, lo hanno subito ribattezzato lo Special Two.
Qualche tempo prima, nell’ottobre del 2010, Gabriele Marcotti sulle pagine del Wall Street Journal scriveva di quell’allenatore appena trentatrenne che, nel solco di Mourinho al Porto, aveva vinto undici partite su undici considerando tutte le competizioni. Ai paragoni che lo volevano il Luke Skywalker di un Mourinho-Yoda, o il Mini-Me del Dottor Male in Austin Powers, Marcotti preferiva quello con Theo Epstein. Da impiegato delle relazioni pubbliche Epstein fece colpo sul presidente Larry Lucchino e diventò il più giovane General Manager della Major League di Baseball. A trentun anni fece vincere ai Boston Red Sox le prime World Series della loro storia nel 2004, bissando nel 2007 da vice-presidente. Adesso che ne ha trentotto è il presidente dei Chicago Cubs. Epstein applicava un metodo statistico conosciuto come Sabermetrics (di cui si parla anche in Moneyball) ed ha bruciato le tappe in un ambiente estremamente conservatore senza godere dei privilegi di un ex-giocatore. Marcotti nel suo articolo sosteneva che la prova del valore di Villas-Boas sarebbe arrivata il giorno in cui qualcuno ne avesse scritto senza menzionare Mourinho. Non poteva sapere che persino dopo aver vinto il campionato portoghese da imbattuto (30 risultati utili consecutivi, 16 vittorie di fila, miglior attacco e miglior difesa del torneo), una Coppa di Portogallo e l’Europa League (4 trofei in un anno, contando la Supercoppa di Portogallo vinta appena arrivato) si sarebbe ancora parlato di Villas-Boas tirando in ballo Mourinho.
Dato però che la responsabilità è anche sua, e del fatto che ha scelto di ripercorrere quasi esattamente gli stessi passi del maestro, Villas-Boas ha colto un paio di occasioni per provare a uscire dall’ombra di Mourinho. Dopo la finale tutta portoghese di Europa League vinta per 1-0 contro lo Sporting Braga (dopo essersi scusato per lo spettacolo non all’altezza dei loro standard) dedica la vittoria: “Al mio staff tecnico, ai giocatori e ai tifosi. Vorrei aggiungere Pep Guardiola, anche se può sembrare sorprendente, e José Mourinho. Mi ha fatto entrare nel calcio professionistico, per questo dedico a lui questa vittoria. E la dedico anche a qualcuno che ci ha già lasciati, ma che è stato decisivo nella mia carriera: Bobby Robson. Non ho avuto l’opportunità di dirgli addio e vorrei dedicare questa vittoria a lui e sua moglie, Elsie, e ringraziarlo per tutto quello che ha fatto per me”. Nello stesso discorso Villas-Boas cita Mourinho e Guardiola (come a dire: i nemici di Mourinho non sono i miei nemici) e il loro comune maestro Sir Bobby, di cui lo Special One fu allenatore in seconda proprio quando lui iniziò a fargli da assistente. In un’altra occasione, a un giornalista che lo interroga direttamente sul soggetto, chiarisce: “Mi rispecchio di più nell’immagine di Bobby Robson. Come lui, ho antenati inglesi, il nasone e amo il vino rosso”.
In generale, è pressoché impossibile diventare allenatori professionisti senza aver mai giocato a calcio ad alto livello. Ancora di più se si è appena trentenni e praticamente senza esperienza diretta nel ruolo. Ma quanto conta l’esperienza in un mondo che cambia di continuo?
Luís André de Pina Cabral e Villas-Boas, abbreviato in Inghilterra in AVB, di famiglia nobile e con una nonna inglese, aveva sedici anni quando ha infilato un lettera sotto la porta di Bobby Robson, all’epoca allenatore del Porto. Tifoso e aspirante giornalista sportivo (aveva capito subito di non avere le doti per diventare calciatore) tutto quel che sapeva lo aveva imparato dai videogiochi, oppure semplicemente guardando. Nella lettera, però, aveva la faccia tosta di dare consigli all’allenatore venuto ad abitare proprio nel suo palazzo, sull’utilizzo non corretto dell’attaccante Domingos Paciência (futuro allenatore dello Sporting Braga nella finale di Europa League vinta da AVB). Seguirono piacevoli chiacchierate nella tromba delle scale e l’invito di Robson a fargli da assistente. Viste le qualità del ragazzo, sir Bobby decise di spedirlo, ancora minorenne, a seguire i corsi della Federazione Scozzese, a Largs, con lo stesso professore di Mourinho: Jim Fleeting, dove cominciando da zero Villas-Boas prese tutti i patentini necessari.
Cose di questo genere, iniziare una carriera infilando lettere sotto la porta di casa di uno che conta, quindi, succedono davvero. Poi però bisogna eccellere. Fleeting dice: “Quello che più mi impressionava di lui era l’attenzione che aveva per i dettagli, che si trattasse di analizzare una squadra o un singolo giocatore. Inoltre usava la tecnologia in modo brillante”. A quanto pare, ancora oggi, Jim Fleeting usa le presentazioni di Villas-Boas durante le sue lezioni.
Studente eccezionale, AVB si procura il suo primo contratto da professionista a ventun anni: come allenatore delle Isole Vergini (che nella classifica Fifa, oggi, occupa la posizione 198 su 205). “Praticamente facevo da allenatore all’intera isola. Ero un ragazzino, ma loro non lo sapevano. Gli dissi la mia età solo al momento di andarmene”. Villas-Boas, mentendo, guidò una nazionale, seppur scarsa, alle qualificazioni per il Mondiale del 2002 e fu esonerato dopo aver perso 9-0 contro le Bermuda.
Tornato al Porto, allena l’Under-19. Mourinho, che nel frattempo ha seguito Robson al Barcellona, fatto da secondo a Van Gaal e allenato Benfica e União Leira, viene chiamato ad allenare la prima squadra proprio in quel periodo e subito mette AVB a capo del nuovissimo Opponent Observation Department. Il lavoro di AVB consisteva nel preparare rapporti sulle squadre avversarie. Viaggiava, spesso in incognito, e impiegava quattro giorni per confezionare dvd personalizzati per ogni giocatore con le caratteristiche dell’avversario che si sarebbe trovato di fronte. L’idea era di preparare la squadra ad affrontare tutte le situazioni di gioco possibili, di modo che anche i momenti di difficoltà non sarebbero arrivati come degli imprevisti Il ruolo di Villas-Boas all’interno dello staff di Mourinho non doveva essere marginale se l’allenatore parlava di lui come dei suoi “occhi e orecchie”.
L’importanza di Mourinho nella carriera di Villas-Boas consiste principalmente in questo: nell’averlo trasformato in una specie di agente segreto del calcio internazionale e nell’avergli trasmesso una meticolosa attenzione per i dettagli. Nella sua biografia Mourinho scrive: “Dopo cena aveva luogo la riunione principale. Annunciavo la squadra che sarebbe scesa in campo e presentavo le tattiche di gioco su PowerPoint, situazione per situazione, cosa fare, come reagire, come adattarsi, come vincere”. (Se qualcuno quando si parla di tattica pensa al 5-5-5 di Oronzo Canà e immagina l’allenatore di calcio come Trapattoni nella pubblicità della lavatrice, ecco, no, si fanno le presentazioni in PowerPoint come negli uffici marketing).
AVB segue Mourinho prima al Chelsea e poi all’Inter, da dove se ne va prima di vincere la sua seconda Champions League come apprendista allenatore. Nell’ottobre del 2009 prende le redini dell’Academica Coimbra, squadra ultima in classifica nel campionato portoghese. Il presidente dell’Academica nell’annunciarlo usa come garanzia proprio lo Special One: “Il successo di Mourinho in tutti i club in cui ha allenato è strettamente collegato col lavoro di Villas-Boas come osservatore e analista”. Alla fine del campionato l’Academica arriva a un comodo decimo posto e in semifinale della Coppa di Portogallo. Villas Boas si mette in luce quanto basta perché il Porto, suo ex datore di lavoro, lo chiamasse per risollevare le sorti di una squadra abituata a primeggiare. “Non sono il clone di nessuno”, si presenta AVB, “La gente parla della mia età, ma quello che è contato veramente fin ad ora sono state le mie qualità”. Villas-Boas ha vinto col Porto tutto quello che poteva vincere. Con un gioco spettacolare votato all’attacco (“Quello che mi interessa è creare più occasioni possibile. Non ho l’ossessione delle vittorie pesanti, semmai quello che mi ossessiona è un nuovo stile di gioco e un nuovo metodo”) al suo primo anno ha conquistato il Trebe per la seconda volta nella storia del Porto: come solo Mourinho prima di lui era riuscito a fare. A differenza di Mourinho, però, non ha scelto di restare per consolidare la sua posizione, provando magari a vincere l’edizione successiva della Champions League, ma ha anticipato di un anno il passaggio al Chelsea. D’altra parte, se come ha dichiarato non allenerà per più di quindici anni per via dello stress (qui), non c’è tempo da perdere.
Sabato 18 febbraio 2012, otto mesi dopo, il Chelsea pareggia in casa una gara di FA Cup contro una squadra di seconda divisione. I tifosi del Birmingham lo canzonano con il coro “Sacked in the morning”, (più o meno: ti cacciano in mattinata) mentre quelli del Chelsea invocano il nome di José Mourinho. Dopo la sconfitta della settimana precedente sul campo dell’Everton per 2-0, il giorno di riposo dei giocatori era stato annullato e Abramovich in persona si era presentato sul terreno di allenamento per un confronto. Una settimana d’inferno per Villas-Boas. Pinto Da Costa, presidente del Porto, ha detto che il problema è che i giocatori continuano a mandarsi sms con Mourinho. AVB ha risposto che lo fa anche lui con i suoi ex giocatori dell’Academica e del Porto stesso, che non c’è niente di male. In generale, dice non avere bisogno del sostegno dei calciatori, ma solo di quello del proprietario (qui). I tabloid lo hanno ribattezzato Villas-Goas ed ha iniziato a circolare il nome di Guus Hiddink, che già tre anni fa, in condizioni simili, aveva sostituito Scolari sulla panchina del Chelsea. Abramovich non rilascia dichiarazioni e non ci sarebbe stato modo di sapere quali fossero le sue reali intenzioni se non fosse stato ufficializzato, proprio qualche giorno fa, il passaggio di Hiddink all’Anzhi, levando così un po’ di pressione dalle spalle di Villas-Boas.
La capacità di gestione del gruppo a un livello elevato di stress è parte fondamentale del mestiere di allenatore e se si confrontano le sue conferenze stampa con quelle di Mourinho (ad esempio quella del “Porque?”; o anche quella tutta allusioni tenuta dopo essere stato eliminato in Copa del Rey dal Barça, qui) si può vedere la differente presa sul pubblico dei due. Villas-Boas è simpatico, i suoi tentennamenti indicano lo sforzo di dare una risposta che sia al tempo stesso la migliore per il proprio scopo (motivare i propri giocatori e il pubblico) e la più sincera possibile. Mourinho invece è capace di tenere in scacco coi propri silenzi una platea di giornalisti, di far dire a loro quello che non vuole dire lui e risulta impossibile capire dov’è il confine tra quello che pensa davvero e la sua strategia. Villas Boas è un ragazzo educato, coetaneo di alcune delle stelle a sua disposizione (Drogba e Lampard hanno 33 anni, Terry, Malouda e Cole 31) e per ristabilire le gerarchie di squadra non ha esitato a spedire Anelka in Cina e Alex al Psg (qui la versione dei fatti data dal Sun, qui quella di AVB). Mourinho invece mette le dita negli occhi degli avversari e aspetta l’arbitro nel parcheggio, ma piange salutando Materazzi e tutti i suoi giocatori passati si sono detti disposti ad uccidere per lui. Mentre Mourinho fa da calamita e parafulmini per i suoi giocatori, inserendoli nella narrazione affabulatoria della sua vita (lasciandoli poi scarichi all’allenatore successivo), Villas-Boas fa della lealtà e dell’equilibrio le sue armi retoriche. Il suo talento è puramente tecnico. Più rosso che castano, con una barba di un paio di giorni che gli dà prurito, con delle felpe che sul suo fisico modesto sembrano pigiami e l’impermeabile scuro in panchina, Villas-Boas non ha il carisma del suo illustre maestro. Sulle sue esultanze ed espressioni esistono decine di compilation più o meno divertenti e probabilmente il fatto che non sia disposto a impazzire per il suo lavoro rappresenta, in questo caso, un limite. Dopo l’anno dei record al Porto, è comprensibile che Abramovich avesse pensato di prendere un allenatore in grado di vincere, se non subito, almeno presto. Quinto, a diciassette punti dal Manchester City, adesso rischia di non far qualificare il Chelsea per la prossima edizione della Champions League, cosa mai accaduta da quando Abramovich è proprietario.
Sia al Porto che al Chelsea, AVB resta fedele a un 4-3-3 fluido in cui le ali esterne stringono di frequente verso il centro. In Italia si paragonava il suo gioco a quello di Zeman ma le sue squadre subiscono pochi gol e anche se non si esaltano nella fase di pressing come il Barcellona tendono a schiacciare le avversarie e recuperare palla nella loro metà campo. Una componente conservatrice fa sì che a segnare siano prevalentemente gli attaccanti, che i difensori difendano e i centrocampisti facciano circolare la palla senza fretta di verticalizzare o inserirsi. Per dire, il miglior incursone del Chelsea, Lampard, lascia spesso il posto a centrocampisti più contenitivi come Mikel o Meireles. Il centrale di centrocampo, di solito Essien o Romeu (ma anche in questo AVB mostra parecchia flessibilità), resta prevalente a copertura della difesa, un po’ come De Rossi nella Roma di Luis Enrique, dispensato però dai compiti di playmaker unico della squadra. AVB è l’unico allenatore della Premier League ad aver utilizzato sempre tutti e tre i cambi a disposizione. Questo, insieme al continuo variare dell’unidici inziale, lascia intendere che per lui davvero non esistano titolari né riserve. Anche se il Chelsea dà l’impressione della solidità, i reparti a volte sono scollati tra di loro e lasciano spazio al contropiede avversario. Villas-Boas crede nelle capacità individuali dei giocatori e ritiene che il suo compito consista nel tirare fuori il meglio da ognuno di loro. Per questo David Luiz si sente libero di partire palla al piede dalla difesa, perdendola quasi sempre. “Ci si concentra troppo sul ruolo dell’allenatore e io non la vedo così. Non penso a me stesso come a un one-man-show. Nel calcio non si vince grazie a una sola persona, ma alle capacità del collettivo. Sarebbe a dire, la qualità dei giocatori e la struttura del club.” In un certo senso, però, l’esito delle partite finisce col dipendere dalle prestazioni individuali e l’energia del gruppo può calare pericolosamente nei momenti cruciali (come nel caso del vantaggio del Birmingham). Il Chelsea di questo periodo crea troppe poche occasioni da gol (i giocatori si prendono poche responsabilità) e, anche se crossa più degli avversari, il numero di cross che vanno a buon fine è lo stesso. Il movimento nella trequarti avversaria è quasi esclusivamente orizzontale e la palla viene recuperata troppo vicino alla propria porta. Inoltre sta pagando il lungo momento di cattiva forma di Fernando Torres, con Drogba in Coppa d’Africa non c’era scelta e Lukaku (futuro top-player pagato la bellezza di 22 milioni) è ancora troppo giovane. Allenatori come AVB, che portano mentalità e metodi di allenamento nuovi, vanno giudicati al termine di due o tre stagioni. Il Chelsea era in crisi già da qualche anno e una rifondazione che porti frutti durevoli richiede tempo. Paradossalmente è stata la sua stessa storia di vincente a far pensare che le cose potessero andare diversamente. Non è escluso che persino Villas-Boas avesse creduto fosse possibile vincere sempre.
Quando Villas-Boas, meno di un anno fa, dedicava la propria vittoria a Guardiola, Mourinho sembrava essersi inchiodato da solo alla croce del Madrid, ossessionato dal desiderio di battere il Barça delle meraviglie. Adesso che scrivo, lo Special One ha un vantaggio di dieci punti in campionato e le sue quotazioni salgono anche in Champions League, dove si è qualificato vincendo sei partite su sei, col miglior attacco e la miglior difesa del torneo. Se Mourinho è Gatsby, Villas-Boas è un Nick Carraway che invece di scrivere il Grande Gatsby fa carriera e si dimentica dell’eccentrico vicino di casa. Se Mourinho prova a vincere a tutti i costi per riscattare un padre mediocre sia come giocatore che come allenatore, se da tifoso del Benfica fa la storia del Porto, se giura amore al Barcellona (lo prendono ancora in giro ricordandogli gli anni da traduttore per Robson) e poi prova a distruggerlo, AVB è un ragazzo intelligente e di buona famiglia che ha frequentato le migliori scuole e dopo aver studiato economia all’università è entrato in una banca d’affari in un periodo di recessione. Aveva dei vantaggi e quello che ha ottenuto se l’è meritato. Il successo gli spettava e gli è sempre andato tutto bene. Fin qui.
Daniele Manusia (tratto da minima et moralia)
http://www.minimaetmoralia.it/?p=6629&cpage=1#comment-154529