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Il conte Aurelio accarezza il sogno di sposare Lady Edy

Il conte Aurelio era entrato in camera di Lady Edy ormai da cinque minuti, e la ragazza non aveva ancora alzato lo sguardo verso di lui. Sapeva, perché lo sentiva dentro di sé, che quel nuovo incontro non sarebbe stato come tutti gli altri, come i precedenti. Aurelio aveva tra le mani un pacco di lettere legate con un filo spesso quanto un nodo scorsoio, le teneva sospese per un estremo, a dondolare nell’aria, come si fa con i condannati a morte, come se le parole custodite lì dentro fossero davvero una sentenza. “Cosa volete da me? Cosa siete venuto a fare?”, Lady Edy trovò il coraggio di sussurrare qualcosa.
Aurelio si voltò di scatto verso la porta: dall’esterno giungeva nitido e fragoroso il vociare festoso delle Contesse Pon Pon, il nuovo gruppo di dame di compagnie che da qualche giorno faceva parte della corte a castello. “Sono qui per parlarvi di queste”, replicò Aurelio mostrando la corrispondenza. Lady Edy intuì di cosa si trattasse molto prima che il conte aprisse il plico cominciando la lettura. “Caro Aurelio, le sono profondamente grato per tutto ciò che ha fatto per mia figlia, ma per il suo bene le chiedo di lasciarla partire, le chiedo di acconsentire che vada in sposa a Carlos di Madrid. È il suo più vero e profondo desiderio”. Lady Edy arrossì. “Voglio chiarire una volta per tutte”, disse alzando gli occhi dal pavimento, “che queste sono parole di mio padre. Ho detto mille volte ai miei famigliari di non scriverle più, di non mandarle più lettere, così gettano una cattiva luce sul mio candore. Ma non posso fermarli. Posso solo dire che quelle non sono mie parole”.
Aurelio sbuffò. Iniziò un lungo discorso in cui di sfuggita trattò una vasta gamma di temi: la scarsa qualità della vita nella contea, il suo desiderio di acquisire e di gestire in prima persona il trasporto a bordo di calessi verso la costa, infine si abbandonò a tessere le lodi di un nuovo piatto che gli era stato fatto assaggiare, un condimento a base di carne, un sugo da accompagnare alla pasta, una delizia domenicale. Si mise a declamare Shakespeare, lui che aveva una passione per la recitazione; con voce stentorea interpretò da cima a fondo il Giulio Cesare, fino alle Idi Di Marzio, uno strano passaggio in cui l’omicidio di Bruto si confondeva con le ultime notizie di calciomercato. Divagava. Lady Edy lo fermò. Gli disse che avrebbero dovuto parlarsi. Faccia a faccia, disse così. “Io appartengo a questa contea”, si lasciò sfuggire mentre aggiustava il suo tupé, seducente, le dita delle mani lunghe affusolate come quelle di un pianista, lo sguardo languido che si spalancava su nuovi orizzonti.
Aurelio sentì salire dentro di sé la solita forte eccitazione che Lady Edy gli dava da tre anni, durante i quali aveva preso a chiamarla la signora delle cento meraviglie, perché cento e più erano stati i servigi che lei gli aveva fedelmente reso. Ne aveva parlato con entusiasmo e si era confidato con il suo nuovo amico Rafael, un uomo giunto dal reame di Spagna. Aurelio si sentì maschio come poche altre volte prima. Fremette per quell’apertura improvvisa che gli pareva di cogliere nelle parole di Lady Edy. Dimenticò i 63 scudi, sognò ad occhi aperti la prospettiva di una vita con lei e le domandò di nuovo: “Volete dunque essere la mia signora?”. La sventurata non rispose.
(fine 2. puntata – continua)
Il Ciuccio

La prima puntata

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