ilNapolista

Con Pulcinella torniamo al “nonsipuotismo”, che Genovesi bollò come eterno male di Napoli

La proposta di Guido Clemente di San Luca di un’antropologia antibeniteziana di Pulcinella credo meriti un approfondimento, non solo sul piano della discussione sportiva, ma anche della storia e del costume.
Clemente riprende un tema che chi ha qualche anno in più ricorda invece come il centro della polemica che oppose Gianni Brera proprio ai giornalisti napoletani. Vari decenni fa infatti la critica sportiva italiana si divise in due scuole: da un lato Brera, che pensava che il “gioco all’italiana” costituisse non solo la tattica più efficace per il calcio della sua epoca, ma quella più naturale per gli Italiani; dall’altro Gino Palumbo e Antonio Ghirelli, che al contrario preferivano una tattica fondata non sulla difesa, ma votata all’attacco e alla continua ricerca del gol. E agli stupefacenti neologismi presenti negli articoli di Gioanbrefucarlo, come amava autodefinirsi, i napoletani opponevano la loro lettura dei fatti sportivi, con una scrittura non di rado ornata da dotti riferimenti storici e antropologici. Antonio Ghirelli, giornalista e scrittore poliedrico, era del resto anche autore per Einaudi di una eccellente “Storia di Napoli” e non aveva problemi a confrontarsi con certi temi. In ogni caso, per molti lustri la “ideologia di Pulcinella” non fu certo quella difensivista. A ciò contribuì non poco il Napoli di Vinicio, forse a tutt’oggi il Napoli più bello della storia.
Tuttavia la lettura breriana rimase per molti anni quella dominante. Non solo per la lunga teoria di allenatori vittoriosi in Italia e in Europa ascrivibili a tale scuola – da Rocco a Capello, passando per il Trap – ma anche perché questa appariva come una vera e propria trascrizione in ambito calcistico della situazione storico-esistenziale della nazione.
Brera lo accennava ogni tanto: il catenaccio, la difesa e il fulmineo contropiede, erano la trasposizione nel rettangolo di gioco della identità maturata dagli italiani nella prima e nella seconda guerra mondiale: la lunga attesa in trincea, quella che Gramsci chiamava la “guerra di posizione”, e poi i rapidissimi attacchi, gli agguati improvvisi – la guerra di guerriglia – per fiaccare il nemico e infliggergli il maggior numero di perdite possibile, in attesa della Vittorio Veneto o del 25 Aprile finale. Del resto, l’Italia, sebbene già stesse attraversando gli anni del boom, era sempre un paese di contadini e di operai, spesso scarsi di altezza e di proteine, pure con l’aggravio di qualche “abatino”, a volte geniale ma dalla vocazione fatalmente parassitaria, ed era inevitabile si sentissero in una condizione di inferiorità.
Garibaldi e il paròn Rocco, il Trap e Ferruccio Parri, Armando Diaz e il mago Herrera, si fondevano così in un’unica fantastica interpretazione della storia e del carattere degli Italiani, e il catenaccio diventava l’autobiografia storico-politica, ma anche antropometrica, di una nazione.
Al principiare degli anni ’80 i primi scricchiolii. Venne la Roma di Liedholm, col suo proto-tiki-taka a tutto campo, ma Brera poté ancora contare sulla opposizione risoluta della Juve del Trap, e anche del Napoli di Marchesi, che a quei tempi aveva reinterpretato Ruud Krol nel più sontuoso libero all’italiana di tutti i tempi, e soprattutto della vittoria bearzottiana al Mundial spagnolo: il punto più alto del calcio all’italiana in epoca moderna, ma pure l’inizio del suo epilogo.
Sì, perché poi arrivò l’Arrighe.
Già, Sacchi.
Forse bisognava prenderlo sul serio quando parlava di rivoluzione. Oggi lo sappiamo: col sacchismo cominciò in Italia la 2’ Repubblica. Non sto parlando di politica. Col Milan di Sacchi vittorioso in Italia e in Europa finì in soffitta il lungo dopoguerra calcistico italiano, proprio quello di Brera e del catenaccio come prolungamento di Vittorio Veneto e della Resistenza. Anche nel calcio si era concluso in realtà il “secolo breve”.
Sono passati gli anni e ora il mondo è diverso: i dualismi amico/nemico e guerra di posizione/guerra di movimento maturati nelle trincee o sulle montagne del ‘900 appaiono archeologia per i ragazzi dell’Erasmus, i paesi di gran parte d’Europa non hanno più frontiere, e l’altezza media degli italiani è ormai paragonabile a quella dei coetanei europei. Nessuno può più avere complessi di inferiorità da sublimare con difese e contropiedi.
E a proposito di Europa, perché non riconoscere pure che il “fare come in Europa” è un antico sogno anche di certi napoletani, assai più antico dei De Laurentiis e dei Benitez? Che se nella storia politica patria si può far risalire almeno al ‘700, in quella calcistica ci riporta ai citati Palumbo, Ghirelli e Vinicio?
Certo, anche Benitez può aver commesso qualche errore (il Rafaelismo è una visione laica e riformatrice dell’evento sportivo), ma il Prerafaelismo sconfina troppo spesso in quel fatalistico “nonsipuotismo”, che già Genovesi aveva diagnosticato come l’eterno male della nostra città.
E tutto questo, in fondo, anche quel napoletano international, che in Francia si fa chiamare Pollichinelle e in Inghilterra Punch, e a cui piace tantissimo come lo ha fatto rivivere lo spagnolo Picasso, credo lo sappia benissimo.
Carlo Pontorieri

ilnapolista © riproduzione riservata